16 febbraio 2009

GOVERNO DELLA PAURA E GOVERNO DELLE CITTA’.

Una “recensione” con discussione di Maurizio Carbognin

Il tema della sicurezza e della paura è ormai da molti mesi al centro del dibattito politico nel nostro paese, dell’informazione giornalistica, dell’analisi sociologica. I “programmi” di contrasto all’insicurezza e alla criminalità sono stati al centro della campagna elettorale già nelle elezioni locali 2007 (in particolare a Verona) e sono ritornati nella campagna 2008, il più delle volte coniugando il tema della sicurezza con quello del contrasto ai comportamenti criminali di minoranze etniche immigrate (zingari, rumeni ecc.).
Malgrado questa attenzione e alcuni primi provvedimenti locali e nazionali, la percezione di insicurezza da parte dei cittadini si è andata dilatando, come testimoniano da ultimo le indagini di Diamanti su Repubblica e i sondaggi pubblicati anche dai quotidiani veronesi. E ad alcuni, ormai pochi, osservatori inguaribilmente abituati a confrontare le proprie opinioni con i dati empirici, continua a risultare incomprensibile come la percezione di insicurezza sia più marcata dove minore o addirittura in calo è la presenza di reati.
In proposito, un caso emblematico appare la situazione veronese. I questori e i procuratori della repubblica che si sono succeduti negli ultimi 5-6 anni hanno sempre dichiarato, suffragando le loro affermazioni con dati precisi ed attendibili, che la situazione veronese non faceva e non fa intravedere particolari motivi di allarme in tema di criminalità, essendo da un lato cambiati i circuiti di circolazione della droga (che avevano più o meno propriamente fatto definire Verona negli anni ’80 la “Bangkok d’Italia”) e non essendovi una significativa presenza di criminalità organizzata. I diversi dati sulle denunce e gli atti criminali confermano ovviamente queste opinioni. Ciononostante, ben prima delle elezioni del 2007, i cittadini individuavano in ogni sondaggio la sicurezza come il tema più critico per la città, al centro delle loro preoccupazioni. Le elezioni comunali 2007 si sono giocate fortemente su questo tema e sono state vinte dal leghista Flavio Tosi, che aveva capito per tempo gli umori dell’elettorato (e in parte contribuito a crearli). Il nuovo sindaco fa della sicurezza il suo cavallo di battaglia, ma dopo un anno, malgrado ordinanze, sgomberi e proclami, la percezione dei cittadini non è significativamente cambiata, tanto che il sindaco ha chiesto con forza l’impiego dell’esercito con funzioni di ordine pubblico anche a Verona (senza che nel frattempo si siano verificate emergenze paragonabili a quelle di Napoli, Palermo o altre città).
La traduzione di un bel libro di Jonathan Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, Raffaello Cortina, 2008, apre un significativo squarcio nell’apparente incomprensibilità di queste tendenze: il titolo originale, come spesso accade, esprime già in modo compiuto la tesi del libro Governing Throught Crime. How the War on Crime Trasformed American Democracy. Ne riporterò le tesi più importanti, per poi ipotizzare una serie di tendenze destinate a manifestarsi anche nel nostro paese (i primi segni ci sono già tutti), con particolare attenzione ai problemi di governo delle città.
Criminalità e governance americana
Anzitutto il libro di Simon documenta che il “governo attraverso la criminalità” non è un’invenzione della Lega, ma inizia negli Stati Uniti già alla fine degli anni’60. “Gli americani hanno costruito un nuovo ordine civile e politico strutturato intorno alla questione della criminalità violenta. In questo nuovo ordine, valori quali eguaglianza e libertà sono stati ridefiniti in termini che sarebbero stati sconvolgenti, se non del tutto impensabili alla fine degli anni Sessanta, mentre nuove forme di potere si sono istituzionalizzate e radicate: tutto in nome della repressione di ondate di criminalità apparentemente infinite” (stiamo parlando di un periodo ben antecedente la guerra al terrorismo a seguito dell’11 settembre).
Anche negli Stati Uniti per lungo tempo criminologi e sociologi hanno cercato di documentare come questa paura della criminalità e della violenza fosse irrazionale, “ma anche qualora il pubblico prendesse seriamente in considerazione le basi empiriche di questa posizione, sarebbe poco ragionevole aspettarsi che l’ordine civile costruito attorno alla criminalità, in America, si possa dissolvere in poco tempo”. Questo è il punto-chiave: attorno alla lotta alla criminalità è stato costruito un nuovo e coerente ordine civile, che non necessariamente ha a che vedere con la criminalità.
La tesi di Simon, quindi, è che il “governo attraverso la criminalità” rappresenta un nuovo modello di governance, che si afferma gradualmente sulla crisi della governance consolidatasi con lo “stato sociale” prodotto dal New Deal. Negli anni ’60 l’ordine politico uscito dal New Deal entra progressivamente in crisi (guerra del Vietnam, movimenti studenteschi, movimenti per i diritti civili ecc.) e la classe politica (in modo bipartisan, questo è rilevante) incomincia a guardare alla criminalità come ad uno strumento per creare un nuovo ordine, prima ancora dell’aumento dei tassi di criminalità effettivamente avvenuto a fine decennio: è importante sottolineare che negli USA, e probabilmente anche in Italia, l’opinione pubblica ha seguito e non alimentato la mobilitazione del mondo politico sulle tematiche della sicurezza. Ciò è avvenuto non per un disegno macchiavellico pianificato da qualcuno, ma perchè la mobilitazione sulla sicurezza e contro il crimine ha consentito di “creare” risorse e fornire benefici in modo più semplice e “redditizio” che tramite altri canali.
Il governo attraverso la criminalità produce nuove risorse di legittimità per una classe politica in crisi. “Da Roosvelt fino a Reagan i presidenti hanno proposto un’immagine di sè quali depositari di un sapere e di una tecnologia diplomatico-militare capaci di assicurare prosperità e sicurezza a tutti gli americani dotati di buona voltà”. Gli scandali e le menzogne che hanno coinvolto il vertice politico hanno minato la fiducia nell’esecutivo, nel modello di autorità del New Deal e verso le varie forme di expertise che un tempo compendiavano tale leadership, come l’economia, la sociologia, la psicologia, la criminologia. L’accusatore, il pubblico ministero rappresenta un nuovo modello di leadership (agli italiani viene in mente qualcosa?) e non a caso nella nuova fase negli USA molti sindaci di successo e molti governatori vengono da una precedente esperienza di attorney. Le campagne elettorali sono diventate delle competizioni sulla propensione ad assumere un ruolo accusatorio. “I leader dell’esecutivo raggiungono il culmine nell’esercizio della propria autorità quando si cimentano nell’additare il male e nell’imputarne la responsabilità a qualcuno” e nel definire ogni minaccia pubblica – dall’analfabetismo, alla crisi economica, dall’aumento dei prezzi alla carenza di alloggi, dal traffico alle armi di distruzione di massa – come una vittimizzazione personale inflitta da individui malvagi e corrotti (con ciò deresponsabilizzandosi ed abdicando a quello che dovrebbe essere il proprio ruolo di risolutori di problemi collettivi).
Anche in Italia il successo dei cosiddetti sindaci-sceriffi (di centro-destra, ma anche di centro-sinistra) nasce da una dinamica simile e non a caso si sviluppa dopo il consolidamento e l’interiorizzazione a livello di elettorato dei mutamenti apportati dall’elezione diretta.
Il governo attraverso la criminalità produce nuove risorse di identità per le persone in una fase nella quale l’erosione delle risorse tradizionali risulta ormai elevata: il mito della frontiera, l’orgoglio della supremazia mondiale derivante dalle vittorie belliche, la prospettiva dell’integrazione razziale ecc. La “nuova classe media di consumo” tende a stemperare le identità basate sul lavoro e sulla classe sociale, mentre la promessa dell’integrazione razziale continua a rimanere una promessa scarsamente mantenuta.
A queste difficoltà, il “governo tramite la criminalità” offre una nuova opportunità, che tende ad omogeneizzare e ad identificare valori e interessi comuni tra i cittadini in quanto vittime (reali o potenziali, non fa una grande differenza) di un crimine. “Chi siamo noi? Le vittime!”. Venendo ad anni più recenti, negli Stati Uniti ed ancor più in Italia, si capisce subito che tale fattore di identità si sposa in modo immediato con i processi di invecchiamento della popolazione. Non c’è dubbio che l’affermarsi del “governo della paura” si sposa con l’epoca di “passioni tristi” che sembra caratterizzare il nostro tempo: sfiducia, impotenza, disgregazione, rancore
1.
Il governo attraverso la criminalità detta una nuova agenda ed un diverso modo di definire i problemi sociali.
Il compito della giustizia non “è più” quello di garantire un processo “giusto”, gestito da un giudice “terzo”, ma quello di trovare e punire i colpevoli e metterli nelle condizioni di non nuocere. I giudici “garantisti” vengono messi sotto accusa sui giornali e i loro poteri limitati (attenzione! stiamo parlando degli Stati Uniti...)
Le carceri non sono luoghi, ammesso che lo siano mai stati, deputati alla riabilitazione del condannato, ma “discariche” nelle quali depositare i “rifiuti” della società. La popolazione carceraria negli Stati Uniti continua ad aumentare: nel 2008 un cittadino americano adulto su 100 risultava essere in prigione (2,3 milioni di detenuti e 7,2 milioni di individui sottoposti a qualche forma di controllo penale o carcerario). In tale popolazione i neri fanno la parte del leone, cosicchè secondo le attuali tendenze un maschio nero su tre finirà in galera durante la sua vita (c’è chi sostiene che l’incarcerazione di massa è stata la “vera” risposta alle politiche di desegregazione degli anni ’60....).
L’assistenza sociale non è un diritto di cittadinanza, da gestire per risolvere casi umanamente e socialmente delicati, ma un “premio” che si rischia di perdere a fronte di comportamenti devianti.
La scuola ha come compito primario quello di garantire la sicurezza dei giovani e di impedire che accedano a comportamenti delittuosi, piuttosto che quello educativo e formativo.
Simon esamina molto dettagliatamente ciascuna di queste tendenze, riportando gli atti legislativi che esprimono gli orientamenti indicati e le “interpretazioni” da parte dei diversi Stati.
Paura e governo delle città
La governance della paura nel nostro paese (e nelle nostre città) è ancora allo stadio iniziale (ancora una volta ci troviamo ad imitare quello che accade negli Stati Uniti con una trentina d’anni di ritardo), ma gli indizi dell’emergere di questo paradigma ci sono tutti, e stanno manifestandosi tutti insieme, rapidamente, negli ultimi mesi.
I fatti di violenza giovanile, che fino a poco tempo fa erano letti come sintomi di un disagio, sul quale intervenire in primo luogo con politiche educative e di prevenzione (penso al nascere delle “politiche giovanili” a partire dagli anni ’80), oggi sono letti prevalentemente come comportamenti delinquenziali da punire severamente, essendo la punizione l’unico modo per evitare il reiterarsi del fatto. Possiamo aspettarci in futuro uno sviluppo di tali tendenze, con interventi sulla punibilità dei minori e la limitazione del ruolo dei Tribunali dei minori (è già avvenuto negli USA e nel Regno Unito).
La “scoperta” del basso rendimento delle politiche educative e scolastiche diventata di dominio pubblico a seguito dell’ultima indagine PISA, invece di interrogare la politica sui ritardi e le inadeguatezze delle politiche scolastiche e l’insufficienza degli investimenti nel settore dell’educazione, porrà probabilmente la “punibilità” (di insegnanti ed alunni) come cardine di un intervento migliorativo (le declinazione concreta della “meritocrazia” non sta già andando in questa direzione?). Il miglioramento dei risultati scolastici è già da quest’anno affidato al voto di condotta e al grembiule.
Anche nell’ambito delle politiche famigliari e di welfare, il forse inevitabile superamento dell’universalismo in direzione di una maggiore selettività potrebbe assumere il volto del riconoscimento ai “meritevoli”, intendendo per meritevole chi non si macchia di colpe gravi come reati penalmente perseguiti (già nelle politiche della casa la selettività nei confronti di segmenti specifici di popolazione, come gli immigrati, pone le premesse per andare in questa direzione).
Il governo delle città verrà sempre più orientato dalle tematiche della sicurezza (mi riferisco alle città del Centro-Nord; al Sud, come è noto, il problema criminalità si pone in modo radicalmente diverso). La visionarietà dei piani strategici a lungo termine si troverà a fare i conti con la sedicente concretezza dell’attenzione ai “veri problemi della gente”. Dopo i canoni “padani” per l’arredo urbano (le panchine che impediscono agli homeless di sdraiarsi a dormire), anche i progetti di intervento urbanistico verranno valutati all’interno di quell’universo culturale: l’urgenza di porre fine al degrado e allo spaccio di droga giustificherà qualsiasi speculazione in quartieri da ristrutturare e lo sviluppo di gated community, sorvegliate da guardie private, rappresenterà il business immobiliare del futuro.
E’ possibile contrastare questa tendenza?
Possiamo chiederci, con Simon, se la produzione di un vasto numero di detenuti migliori la governabilità delle città e delle periferie urbane, delle comunità e delle famiglie. Se i programmi di leadership che enfatizzano la punitività rendano il potere più o meno responsabile. Se la famiglia esca rafforzata da interventi anche tecnologicamente sofisticati (test antidroga obbligatori ecc.) che escludano i rischi di droga e violenza. Se l’efficacia delle politiche educative venga rafforzata semplicemente dalla “severità” delle selezione. Se gli obiettivi delle politiche assistenziali vengano raggiunti in modo più efficace sulla base di una selettività basata sul “merito” individuale.
Ma il dubbio più rilevante è che il governo attraverso la criminalità consumi la capacità democratica nella misura in cui distrugge la fiducia e il capitale sociale, e nel tempo stesso non aumenti la percezione di sicurezza dei cittadini e l’effettiva sicurezza delle città.
Dobbiamo probabilmente ri-metterci d’accordo su a che cosa “servano” le politiche pubbliche. Secondo la versione più comunemente accettata
2, una politica pubblica è l’insieme delle azioni compiute da un insieme di soggetti, che siano in qualche modo correlate alla soluzione di un problema collettivo di interesse pubblico.
La “politica della paura” e il governo attraverso la criminalità hanno dimostrato la loro inefficacia rispetto al problema “ufficiale” (la sicurezza) dal quale traggono origine e legittimità. Le analisi dei risultati delle politiche di “tolleranza zero” dimostrano come i risultati veri, sul fronte sicurezza, si ottengano con un mix articolato di provvedimenti repressivi e di interventi che mirano a coinvolgere i cittadini e a sviluppare il senso civico (quindi contrastare la politica della paura non significa essere contrari a specifici provvedimenti orientati ad una maggiore severità o certezza della pena).
Ma la “politica della paura” e il governo attraverso la criminalità hanno un effetto devastante rispetto al ruolo chiave che ha la fiducia nel mantenimento della coesione sociale e nello stesso sviluppo economico. Come insegnano i grandi maestri dell’economia e come confermano le crisi bancarie di questi giorni, senza fiducia non c’è possibilità di sviluppo del mercato e dell’economia.
Contrastare il populismo, che semplifica i problemi e chiude la bocca agli specialisti che tendono a mostrare le diverse e spesso contraddittorie facce della realtà, sembra (e forse effettivamente è) un’impresa impossibile. Appare più “facile” o comunque possibile e conveniente cavalcare l’onda, talvolta in modo emulativo.
Certo il populismo trova terreno fertile nello screditamento della classe politica e nell’antipolitica trionfante. Ma non possiamo aspettare vent’anni (negli Stati Uniti, ci dice Simon, qualche dubbio sul governo attraverso la criminalità comincia a serpeggiare), perchè gli effetti devastanti divengano evidenti a tutti.
Forse siamo ancora in tempo per una discussione pubblica, aperta e senza pregiudizi o schemi aprioristici, che dimostri la capacità di distinguere gli interventi efficaci sugli effettivi problemi di sicurezza e paura (e forse solo una parte delle paure derivano da fatti criminali), dai modelli di governance e di società che vogliamo costruire.
Occorre continuare a sperare che i veronesi (e gli italiani) non desiderino vivere nella città così cupa, insicura, divisa e violenta raccontata dall’attuale sindaco.
Maurizio Carbognin

1 L’espressione “passioni tristi” è di Spinoza, ed è ricordata in un libro di due psicologi M. Benasayag e G. Schmitt, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004.
2 W.N. Dunn, Public Policy Analysis. An Introduction, Englewood Cliffs, N.J., Prentice Hall, 1981.