In quest’ultimo decennio, nell’alternarsi delle amministrazioni che hanno retto il governo cittadino, il paesaggio urbano di Verona si è popolato di molte cose bruttine e spesso ai confini del Kitsch, se non oltre: dalle bronzee effigi di Shakespeare e Don Leonardi che fanno capolino sotto i Portoni della Bra e in Via Mazzini alla risistemazione del sagrato di San Giorgio e Piazza Isolo, dal carabiniere nano che campeggia fuori Porta San Zeno agli improbabili lampioni stile Rive gauche piantati sulle geometrie razionalistico-littorie del lungadige tra Ponte Garibaldi e Ponte Pietra.
In questo sconsolante elenco dal quale emerge, inesorabile, l’estinguersi di elementari canoni estetici e di buona creanza che fino alla metà del secolo scorso venivano tranquillamente padroneggiati dall’ultimo geometra del Genio Civile, un posto di riguardo spetta senza dubbio al monumento inaugurato nel 2003 presso il Cortile del Tribunale ignorando bellamente le numerose e prestigiose voci di protesta levatesi contro l’operazione.
L’oggetto in questione, incentrato sulla presunta statua del maresciallo J. Matthias von der Schulenburg, uomo d’arme prussiano al soldo della Serenissima a cavallo tra Sei e Settecento, è stato creato allo scopo di celebrare il pronipote Werner (1881-1958), diplomatico di vaglia, letterato, commediografo e fine conoscitore della cultura italiana.
Questo complesso e controverso personaggio torna oggi alla ribalta grazie alla biografia romanzata dedicatagli dalla figlia Sibyl e pubblicata dall’editrice Ipertesto di Verona (Il Barone, pp. 430, euro 25).
L’affetto che l’ultimogenita del nobiluomo tedesco nutre per la figura mitizzata di un padre perduto in tenerissima età traspare da tutte le pagine del volume che nel suo genere è ben scritto, ricco di interessanti aneddoti e animato da una galleria di fascinosi personaggi tra i quali spiccano Bismarck, Mussolini (del quale Von der Schulenburg tradusse l’opera teatrale Villafranca), Goebbels, Lenin, D’Annunzio, Pavolini, la Sarfatti, De Pisis e molti altri ancora.
Questo stesso affetto tuttavia, traducendosi nello spasmodico tentativo di esaltare il dissenso nutrito nei confronti del regime hitleriano dal Barone, angelicato niente meno che come «protagonista di rilievo per la pace in un’Europa oppressa dalla Germania nazista», porta ad una deformazione della prospettiva storica pericolosamente disorientante e a tratti addirittura grottesca.
Per uno scritto che ambisce ad offrirsi come testimonianza attendibile di un’epoca gli aspetti poco convincenti sono parecchi: l’immissione nel testo di documenti sicuramente autentici ma non per questo sempre veridici, scelti ad arte per esaltare il personaggio; il continuo, martellante riferimento all’orrore suscitato nel Barone dall’antisemitismo nazista, tanto ripetuto e insistente da risultare sospetto o quantomeno funzionale al tentativo di ricostruirgli una verginità postuma; l’inverosimile ritratto di un diplomatico che, aggregato all’ambasciata tedesca di Roma negli anni della guerra con non meglio definiti incarichi culturali e ancora operativo a Venezia dopo l’otto settembre, non perderebbe occasione per contestare ed ostacolare i nazisti tanto apertamente ed imprudentemente da suscitare in diverse occasioni, e questo la dice lunga, il sospetto di essere un agente provocatore al servizio della Gestapo; la rimozione dal glorioso album di famiglia del Von der Schulenburg maggiore dell’esercito tedesco e responsabile delle stragi di civili compiute nel 1943 a Matera e Roccaraso.
Il dato in assoluto meno convincente però è un altro e risalta anche dando per oro colato, dalla prima all’ultima, tutte le vicende narrate nel Barone. Né l’esibizione di fieri sentimenti filosemiti, né la continua, pervicace presa di distanza dagli eccessi dell’«imbianchino» Hitler possono far passare in secondo piano la totale sintonia di Von der Schulenburg con la soluzione dittatoriale realizzata dal fascismo, o meglio dai fascismi, nell’Europa del primo dopoguerra. Allo stesso modo, più in generale, il fatto che la casta diplomatico-militare dei «Von» di antica e nobile stirpe prussiana giudicasse con malcelato disgusto il “fetore di popolo” che emanava dal nazionalsocialismo e dal suo capo non deve far dimenticare che quella stessa casta, prima di tentare di sganciarsene a guerra ormai perduta, non aveva esitato un istante a servirsi dei nazisti per abbattere la democrazia parlamentare, cancellare le libertà fondamentali e ripulire la Germania da socialisti, comunisti, liberali, attivisti sindacali e da tutti quei soggetti la cui attività politica fosse percepita come facinorosa ed antinazionale.
In altri termini, il dissenso di personalità colluse con un sistema di potere non può in alcun modo essere equiparato alla resistenza di chi a quel sistema si oppone apertamente. In caso contrario il rischio, tanto per fare un esempio, è che un gerarca come Galeazzo Ciano, giudice feroce delle miserie mussoliniane, antinazista dichiarato, firmatario dell’ordine del giorno che fece cadere il regime, fucilato dai fascisti, finisca per venire messo sullo stesso piano etico ed ideale di Gobetti, Amendola o dei fratelli Rosselli.
La cultura e la memoria storica vivranno pure tempi bui (cogliamo a tal proposito l’occasione per segnalare che nell’inno di Mameli, a rigor di sintassi, «schiava di Roma» è «la vittoria», non «l’Italia») ma non fino a questo punto, almeno si spera.
Chi desiderasse approfondire seriamente la conoscenza del Novecento e delle sue tragedie può dunque fare a meno del gradevole volume firmato da Sibyl von der Schulenburg, così come Verona poteva tranquillamente fare a meno di un monumento lontano dalla sua bellezza e piazzato nel cuore del centro storico per celebrare, con la scusa di una misteriosa statua, un personaggio dal passato a dir poco nebuloso.
A pochi metri da lì, finché durano, gli scolpiti profili di Garibaldi, Cairoli, Cavallotti, Battisti e Matteotti stanno per fortuna a ricordarci ben altre lotte e ben altri combattenti per la libertà.
Stefano Biguzzi
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