31 marzo 2010

Riceviamo e, molto volentieri, pubblichiamo!

Ai membri del Comitato "Verona città aperta"
Vorrrei comunicarVi il mio interesse e la mia partecipazione ideale alle vostre iniziative, volte a recuperare il senso dei luoghi pubblici e del legame sociale che essi producono. Da tempo lavoro su queste tematiche, nella convinzione che dal modo in cui si dispongono gli spazi e in cui si instaurano le relazioni dipenda la soluzione di molti dei problemi della società contemporanea.
Pur non essendo cittadino veronese (ma pisano, d'adozione), aderisco al Vostro appello.
Cordiali saluti, e buon proseguimento in una battaglia che sarà d'esempio per altre realtà.
Tommaso Greco 

PS. Mi permetto di inviarvi due miei brevi interventi relativi alle tematiche del vostro impegno.

Docente di Filosofia e sociologia del diritto Dipartimento di diritto pubblico
Piazza dei Cavalieri 2, 56126 Pisa



QUALE SICUREZZA?
Una breve riflessione per il governo della città

Il tema della sicurezza, per molte ragioni, è ormai da tempo al centro del dibattito pubblico e della comunicazione politica. Quasi sicuramente sarà uno dei punti principali su cui si volgeranno le prossime competizioni elettorali, sia a livello nazionale che a livello locale.
Non è difficile intuire che molte saranno (come già si è verificato in passato) le strumentalizzazioni, le distorsioni, le proposte sbagliate, sempre più o meno interessate, che non hanno altro scopo se non di riproporre continuamente il problema, in modo da poterlo sfruttare politicamente.
La sicurezza tocca la vita di tutti noi ed è giusto che se ne parli; ma di quale sicurezza parliamo? Lasciando da parte la sicurezza che deriva dal lavoro, che pure è un tema assai rilevante, e affrontando quindi il tema della sicurezza personale, che invece sembra essere l’unico all’ordine del giorno, bisogna stare molto attenti ai diversi profili che essa può presentare perché diversi sono i rimedi che essa richiede.
Ci sono profili che attengono alla politica internazionale e alle politiche di contrasto nei confronti della grande criminalità: si tratta di profili che richiedono interventi governativi e intergovernativi, che pure possono incidere sulla vita quotidiana di tutti i cittadini: si pensi agli strumenti di prevenzione e di indagine che possono invadere la privacy o possono violare diritti fondamentali.
Ci sono però dimensioni della sicurezza che ci riguardano ancor più da vicino, perché incidono sulla nostra vita di persone che abitano in una città e vivono in un territorio: pensiamo soprattutto alle questioni che ruotano intorno all’ ‘emergenza microcriminalità’ o alla presenza di minoranze o gruppi considerati ‘pericolosi’. Certo, esiste un livello di illegalità e di violenza nel quale è necessario l’intervento delle forze del­l’or­dine, e quindi un controllo del territorio garantito attraverso il monopolio dell’uso della forza (proprio in garanzia dei più deboli), oltre che un impegno istituzionale che possa garantire la certezza della pena. Ma la paura diffusa non si combatte solo (e principalmente) con le politiche di ordine pubblico, perché si tratta di un sentimento che non si muove sull’asse legalità/illegalità ma è piuttosto qualcosa di indistinto che deriva dal sentirsi ‘in bilico’ e senza appigli nell’ambiente in cui si vive.
Ecco perché la paura si combatte principalmente attraverso l’attivazione del principio ad essa contrario, che è la fiducia reciproca. E poiché la fiducia nasce soltanto nel contesto delle relazioni e dei legami, la sfida principale che un’amministrazione deve affrontare è quella di fare in modo che la città possa essere nuovamente un luogo nel quale è possibile e facile stabilire legami e relazioni, e non solo comprare e consumare beni materiali.
Si tratta di una sfida che impone di re-immaginare e reinventare l’organizzazione e la funzione delle città, e che deve muovere dal modo in cui sono pensati e fruiti gli spazi pubblici.
Una città sicura è innanzi tutto una città vissuta intensamente dai suoi abitanti, non attraverso il ‘mordi e fuggi’ della civiltà dei consumi, ma attraverso lo stare insieme e le pratiche comuni che fanno nascere e crescere la fiducia reciproca. Ma lo stare insieme e le pratiche comuni possono diffondersi soltanto se la città invita fisicamente all’incontro, se si fa accogliente, se è strutturata e organizzata in modo tale da far riscoprire relazioni umane nelle quali il vicino, il passante, colui che incrociamo possono tornare ad essere una risorsa che arricchisce il nostro cammino e non un ostacolo lungo la traiettoria della nostra corsa quotidiana.


I nostri figli, i nostri ostaggi

Un’indagine pubblicata qualche tempo fa in Inghilterra ci dice che la grandissima maggioranza dei bambini non esce mai di casa da solo, anche fino all’età di 13-14 anni. L’articolo da cui ho appreso la notizia (E. Franceschini, I bambini non giocano più all’aperto e la corsa in giardino resta un sogno, «La Repubblica», 6 giugno 2007, p. 35) dice che ciò è dovuto prevalentemente alle paure dei genitori, i quali si fanno influenzare dalle notizie relative ai rapimenti, alla pedofilia, ed altre atrocità di questo genere. A me sembra una spiegazione troppo facile e troppo comoda per tutti. Poiché si tratta di una situazione che viviamo più o meno tutti, anche in Italia, per il bene dei nostri figli bisognerebbe per una volta guardarci allo specchio, parlarne seriamente, cercare le cause vere, e forse arrivare ad ammettere le colpe che abbiamo nei loro confronti. La verità – questa è la mia opinione – è che i nostri figli sono ostaggio di un sistema di vita che non vogliamo mettere in discussione. Se sono rinchiusi tra le mura di casa, messi davanti alla televisione o a fare qualunque altra cosa, è perché abbiamo accettato, e continuiamo ad accettare tutti i giorni, cose che forse dovremmo avere il coraggio di affrontare criticamente (o almeno provarci). Cerco di articolare un ragionamento breve e schematico.

1) Prima dei pedofili, a minacciare i nostri bambini sono le auto. Ora mi chiedo: davvero ci siamo arresi tutti al fatto che le automobili debbano essere le vere padrone delle strade e delle città? È soprattutto colpa delle auto, infatti, se non possiamo mandare un bimbo a scuola a piedi, o semplicemente permettergli di andare a giocare a pallone fuori casa (a meno che non si abbia a disposizione un giardino blindato). Naturalmente non sto coltivando l’illusione che le auto spariscano tutte e all’improvviso, ma forse si potrebbe realizzare – se davvero lo si volesse – il sogno non tanto grande di vederle viaggiare a velocità ridottissime quando circolano su strade abitate, o prevedere che in alcuni quartieri si possa rinunciare alla comodità di arrivare con l’auto fino alla porta di casa, pur di riguadagnare la libertà di muoversi a piedi. E’ troppo chiedere a un Comune di realizzare progetti del genere? E noi, che in ogni occasione, rimpiangiamo il tempo felice in cui giocavamo per le strade, non vorremmo dare questo anche ai nostri figli?

2) Abbiamo assunto del tutto acriticamente l’abitudine di pensare che i nostri figli abbiano bisogno di imparare subito più cose possibili, in modo da essere attrezzati per la lotta della vita. Li mandiamo a ginnastica, a musica, a danza, ad inglese, ad ippica, a svolgere insomma ogni attività possibile. Ci inganniamo (e soprattutto li inganniamo) dicendoci che è quello che loro preferiscono fare, senza pensare che forse avrebbero bisogno di incontrarsi liberamente, con compagni ed amici che non cambino ad ogni ora della giornata, e di vedersi senza il controllo dei genitori e di nessun altra figura ‘istituzionale’. Nonostante tutti coloro che hanno insistito, già da molto tempo, sulla necessità della socializzazione informale e sull’importanza di relazioni spontanee (cioè non organizzate e istituzionalizzate) tra le generazioni, la nostra società è rimasta totalmente sorda e indifferente (anche noi?). Non è il caso di stipulare un patto di disarmo generalizzato e mandare i nostri figli, anziché alla guerra della competizione continua, al Campo dell’Incontro (un luogo utopistico che bisognerebbe creare), dove, oltre a giocare e crescere insieme, magari litigheranno, e anche così impareranno a vivere?

3) La sicurezza e l’insicurezza derivano soprattutto da fattori legati alle relazioni umane. Ci sentiamo insicuri, prevalentemente, perché non sappiamo con chi abbiamo a che fare; e se non lo sappiamo è perché non abbiamo tempo di coltivare le relazioni. Mi chiedo: è un dogma indiscutibile (ed è sempre una necessità inderogabile?) che si dedichi così tanto tempo al lavoro, correndo sempre da un posto all’altro, ma cercando nello stesso tempo di fare tutto ciò che crediamo necessario per il bene nostro e dei nostri figli?

Il ragionamento potrebbe (e dovrebbe) essere più lungo e articolato. Mi accontento di aver fatto delle domande, che lascio alla meditazione – e anche eventualmente al rifiuto sdegnato – di tutti. Chiudo però con un’altra domanda: ma di queste cose, di questi temi, secondo voi, ai nostri politici gliene importa?


Tommaso Greco

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